Monday, July 04, 2005

Musica da camera

d) la musica da camera

Nel 1840 Schumann debutta felicemente nel genere liederistico con una produzione copiosa e sostanzialmente definitiva. L’allargamento dei suoi orizzonti prosegue poi con i concerti e le sinfonie. Nel 1841 il musicista lavora al Concerto per pianoforte e orchestra, alla Prima ed alla futura Quarta Sinfonia. Il 1842 arriva, quindi, la svolta della musica da camera. Egli sembra seguire un programma di rigorosa, graduale espansione delle sue zone d’interesse. Negli anni successivi quel compositore, che sembrava in chopiniana sintonia con l’intima poesia del pianoforte, affronterà i generi più diversi: dal melodramma (Genoveva) alla musica di scena (Manfred), dall’oratorio (Il Paradiso e la Peri) alle composizioni sacre per soli, coro e orchestra (due Requiem ed una Messa).
L’esordio in ambito cameristico avviene nella forma del quartetto, con le tre composizioni dell’opera 41. I risultati, pur pregevoli, non sempre si affrancano da un certo accademismo di fondo; il modello beethoveniano si erge dispotico anche in queste pagine, che soffrono ovviamente dell’improbo confronto.
Di certo, Schumann aveva studiato la produzione cameristica di Beethoven (unitamente a quella di Haydn e Mozart) prima di cimentarsi nell’ardua prova. I suoi Quartetti si pongono per l’appunto quale esplicito proseguimento nel solco di quella tradizione, citando e riutilizzando alcune idee musicali del Titano di Bonn (come il tema dell’Adagio della Nona sinfonia e la Sonata per pianoforte op. 31 n. 3).
Dopo l’avventura creativa del decennio pianistico, dove l’immaginazione riformulava anche le strutture formali, ora il musicista sceglie di misurarsi attraverso schemi più rigidi e poco aperti ad accogliere il pensiero musicale romantico.
In particolare questi Quartetti rappresentano le uniche composizioni cameristiche nelle quali è assente il prediletto pianoforte; anche per tale motivo la scrittura pare a tratti impacciata: una sorta di pensiero musicale pianistico “travestito” e riadattato per l’occasione.
Nell’insieme però, almeno il primo quartetto possiede una fisionomia di un certo interesse: dolce e cantabile sin dall’incipit. In seguito, lo sviluppo acquista poi un andamento beethoveniano vissuto sul contrasto e che raggiunge, almeno in alcuni passaggi, esiti davvero incantevoli. Il sommesso, intimo lirismo si esprime compiutamente in questo movimento. Lo scherzo risulta invece più ovvio e larvatamente scolastico. L’adagio successivo è pagina ricca di pathos, permeata su una riconoscibile citazione della Nona sinfonia di Beethoven; poi il tema si dilata con melodica e struggente espressività, mentre il finale appare prevedibile. Si tratta, in fondo, di un lavoro ancora acerbo e discontinuo, anche se possiede alcuni momenti di sicura presa sull’ascoltatore.
Non altrettanto godibile può considerarsi il Secondo Quartetto, decisamente inferiore al precedente. Solo il primo movimento contiene passi indubbiamente validi e di preziosa cantabilità, mentre il secondo ed il terzo tempo risultano abbastanza deludenti.
Un esito differente lo riscontriamo nel Terzo Quartetto, dove Schumann riesce a muoversi con una certa libertà formale, liberandosi finalmente da quel rigido accademismo che l’aveva sino ad allora condizionato in questo genere. Si tratta, di una pagina più originale ed elevata anche dal punto di vista squisitamente espressivo rispetto ai due lavori precedenti.
Il primo movimento si basa su un tema in cui ci pare di udire, da un lato una domanda insistente, dall’altro una risposta rassicurante; lo sviluppo urgente e conciso drammatizza quella dialettica: il dubbio si fa allora più forte ed angoscioso.
Il secondo movimento è uno scherzo, articolato in una serie di quattro variazioni nelle quali il malinconico lirismo si alterna a momenti di energica irruenza. Eusebio e Florestano tornano in auge in questo lavoro e lo fanno sconvolgendo le regole del discorso musicale classico. Basti pensare al finale del tempo che si chiude su un acceso ritmo di danza visibilmente memore del pianistico Carnaval.
L’adagio molto è pagina straordinaria: vi si avvicendano due sezioni melodiche di sconsolata bellezza. Il finale rappresenta invece il ritorno della luce, delle certezze; è in forma di rondò e si basa su un primo tema denso di echi schubertiani, mentre nella sezione centrale risuona ironica una gavotta, intrisa d’umorismo, che poi si riversa in una chiusa gioiosa.
Quest’ultimo quartetto dimostra come nella musica da camera il compositore riesca più volte a riavvicinarsi a quel clima espressivo - quasi irripetibile - dei precedenti capolavori pianistici. Ad esempio nel Quintetto per pianoforte e archi op. 44 (1842), che resterà modello insuperato all’interno di quel genere, come frutto di una raggiunta maturità.
La prima esecuzione di questo lavoro avviene nel gennaio del 1843 al Gewandhaus di Lipsia (Clara è per l’occasione al pianoforte) e incontra un caloroso successo, che spingerà negli anni successivi altri compositori, come Brahms, Franck e Dvorák, a cimentarsi nella stessa direzione.
L’organico dell’opera 44 era poco utilizzato prima di Schumann; raro predecessore, il quintetto Die Forelle (La Trota) di Schubert, dove peraltro uno dei violini è sostituito dal contrabbasso. Come nel Concerto per pianoforte e orchestra op. 54, la grandezza del Quintetto risiede nella perfetta conciliazione delle esigenze espressive romantiche con una struttura classica, modificata solo in alcuni dettagli secondari e mai compromessa nelle sue esigenze di ordine ed equilibrio interno.
Qui si respira, infatti, la stessa immediatezza che animava le raccolte di aforismi pianistici e vi si ritrovano gli slanci di Florestano accanto ai ripiegamenti di Eusebio.
Il movimento iniziale, nella consueta forma-sonata, è un allegro brillante in cui ad un primo tema energico ed irruente si contrappone, un secondo tema liricamente cantabile; e laddove l’uno è caratterizzato da un fragoroso andamento all’unisono dei cinque strumenti, l’altro, all’opposto, si manifesta come un delicato dialogo, tra violoncello e viola, durante il quale il pianoforte si limita a disegnare un tenue arabesco sonoro.
Questa seconda idea è comunque solo una breve oasi in un movimento che invece corre deciso e con slancio impetuoso. Anche lo sviluppo risulta improntato ad un febbrile impulso, che permea il motivo d’apertura; la parte pianistica, qui indiscussa dominatrice, esegue allora un moto perpetuo derivato dall’idea fondamentale e sul quale s’inserisce, improvvisa ed incisiva, la ripresa.
Il secondo movimento (In modo d’una marcia) è pagina d’intensa drammaticità; segue la struttura del rondò che rimanda palesemente alla marcia funebre dell’Eroica di Beethoven, sia come struttura che come tonalità. Riferimenti a parte, si tratta comunque di un brano di sorprendente pathos, pur nella sua scarna essenzialità.
Lo scherzo successivo, pulsante e dionisiaco, è basato su scale ascendenti che si susseguono senza sosta nel serrato alternarsi di pianoforte e archi; i due trii si svolgono su un registro più sereno, affidati ora ad un semplice dialogo tra gli archi, ora ad un vivace moto perpetuo che passa da uno strumento all’altro.
Insieme con i toni gioiosi del Finale, questo Scherzo cerca ora di riequilibrare le forti tensioni sviluppatesi nella prima metà del lavoro, secondo la consueta prassi dello stile classico.
L’ultimo movimento del quintetto si apre su un tema saltellante e allegro del pianoforte, così come disinvolto e brillante risulta essere anche il secondo tema; il Finale manca dunque di quelle opposizioni dialettiche che rendevano incandescenti i primi movimenti; nella coda campeggia una riprova del virtuosismo creativo di Schumann; ricompare l’idea fondamentale del primo movimento a valori allargati, combinata in chiave contrappuntistica con il tema del finale.
Gli ultimi due movimenti si presentano come un festeggiamento (senza soluzione di continuità) della pace ritrovata, dopo la visione che ha illuminato il cuore del superbo quintetto.
Il Quartetto con pianoforte op. 47 (1842) non possiede la freschezza e la perfezione formale del Quintetto e non è in alcun modo animato dalla stessa incredibile tensione, adagiandosi su toni più salottieri e genericamente disimpegnati; qui, come altrove, lavorando con strutture classiche, Schumann appare talora ridondante, prolisso; in particolare nell’ultimo movimento, dove (come già era accaduto nella Sonata n.1 per pianoforte) dopo la riesposizione ripete anche una sintesi dello sviluppo, prima di una lunga coda.
Il difetto è innanzitutto espressivo: vi si manifesta un’allegria stereotipata che rende l’opera piuttosto monotona ed incapace di donare emozioni profonde; né basta l’andante cantabile - con il suo struggente motivo melodico - a generare una dialettica avvincente. Schumann si limita così a ricalcare soltanto degli archetipi.
Più validi sono senza dubbio i tre Trii con pianoforte; i primi due (op. 63 e op. 80) composti nel 1847, il terzo (op. 110) nel 1851. Anche in tale genere i risultati più attraenti e compatti sono conseguiti nel primo lavoro: inquieto ed appassionato, questo Trio ci riporta nel clima irripetibile dei capolavori del decennio pianistico.
Nel 1850 è la volta dei Fantasiestücke op. 88 per Trio, composti già nel 1842. Qui egli tenta timidamente di trasporre nell’universo della musica da camera la sua concezione aforistica, anche se senza particolare convinzione. Il lavoro si compone di soli quattro pezzi: una Romanza cantabile e suadente; una Humoreske vivace e saltellante; un Duetto che espone un bel dialogo tra violino e violoncello, quasi un canone; un Finale che rievoca sostanzialmente pagine pianistiche di ben altro spessore (come il Carnaval).
Dunque, un lavoro minore che rivela del resto le doti di un compositore appena agli inizi della sua esperienza cameristica. Basti pensare che quasi ovunque la parte pianistica riassuma quella degli archi (ad eccezione del duetto).
Il Trio op. 110 (1851) composto a Düsseldorf è invece un’opera inquieta e ricca di pagine suggestive; in essa il musicista dimentica la scrittura accademica che aveva segnato i suoi lavori meno brillanti e appare più attenta a precise ragioni espressive.
In questo lavoro è di particolare interesse l’adagio, costruito su un tema profondamente malinconico nel suo inesorabile andamento discendente, come anche lo scherzo, tutto giocato su toni e accenti di sorprendente varietà.
Non è l’incontro con Joachim a suggerire le due Sonate per violino e pianoforte op. 105 e op. 121 del 1851, poiché esso è posteriore.
L’opera 105 è una composizione ammirevole, da annoverare tra le cose più alte del suo autore. L’allegro iniziale è pagina tormentata, in cui un commovente motivo dal carattere interrogativo si ripete insistentemente; a questo poi sembra fare da contraltare un intenso dialogo tra violino e pianoforte, in cui Schumann sfiora ancora una volta l’eloquenza della parola. L’allegro che segue dirada in parte le nubi con melodie terse e cantabili, anche se viene amabilmente intervallato da isole di intimissima malinconia.
Il Finale (in tempo allegro) s’incarica di esprimere una gioia incondizionata che sa esplodere in temi sempre originali. Insomma, si tratta di un’opera davvero compatta, dove la struttura classica si fonde perfettamente con l’espressività romantica, come in tutte le migliori creazioni dell’ultimo Schumann.
L’opera 121 è decisamente più ambiziosa nei propositi e nell’elaborata struttura formale; organizzata in quattro movimenti, esordisce con un agitato Allegro non particolarmente originale.
Notevoli invece i due movimenti centrali, connessi tra loro da numerosi rimandi reciproci: uno Scherzo con due trii, vivace ed energico che nel finale anticipa il motivo dell’Adagio ispirato al corale bachiano “Gelobet eist du, Jesu Christi”.
In questo movimento lento il tema è posto al centro di una serie di variazioni eloquenti e distese che ne amplificano la pacata espressività. Il Finale è invece un allegro piuttosto scontato. Come spesso accade, sono i due movimenti centrali, più ridotti nelle dimensioni, quelli nei quali il compositore si manifesta con maggiore originalità e profondità d’ispirazione.
Infine, tra le ultime composizioni cameristiche, vanno segnalate anche le Märche-nerzhählungen (narrazioni di fiabe) per pianoforte, clarinetto e viola op. 132 (1853), quattro pezzi composti contemporaneamente ai pianistici Canti dell’alba e che come quelli risultano altrettanto misteriosi e notturni, impreziositi come sono da uno struggente colore timbrico.
In conclusione, non si può che ribadire un concetto espresso già da altri studiosi; e cioè che la musica da camera di Schumann è nel complesso poco entusiasmante e innovativa, anche se in taluni casi (ascolta, per esempio, il Quartetto op. 41 n. 3, il Quintetto con pianoforte op. 44 e la Sonata per violino op. 105) sa talora raggiungere vette sorprendenti.

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