Monday, July 04, 2005

Musica sinfonico-corale

f) Le composizioni sinfonico-corali

La Bach-Renaissance si inaugurava ufficialmente con la storica esecuzione della Passione Secondo Matteo (1829) al Gewandhaus di Lipsia, sotto l’ispirata bacchetta di Felix Mendelssohn Bartholdy; lo stesso Schumann attribuiva notevole importanza allo studio dell’opera (oratori compresi) del geniale compositore di Eisenach.
Nel 1843 egli componeva, infatti, il suo primo oratorio, Das Paradies und die Peri, tratto dal poema Lalla Rookh di Thomas Moore, ricoprendo in tal modo uno spazio d’indubbio rilievo all’interno della secolare tradizione di questo genere.
Tradizione avviata, come si sa, in Italia dal romano Emilio De’ Cavalieri (La rappresentazione di anima e di corpo, 1600) e irradiatasi in tutta Europa principalmente attraverso musicisti come Carissimi, Stradella, Alessandro Scarlatti, Johann Sebastian Bach.
Sarà poi compito di Franz Joseph Haydn (con La Creazione del 1798 e le sue illuministiche Stagioni del 1801) riportare questa forma ad una dimensione più vicina alle sue originali peculiarità. Agli Oratori, nonchè alle Messe, di Haydn attingeranno, a piene mani, Mozart, Beethoven, Schubert etc.
Schumann, dal canto suo, nel “Paradiso e la Peri” ci racconta le dolorose peregrinazioni dell’angelo caduto (Peri) alla ricerca del “dono più caro al cielo”, attraverso il quale purificarsi ed acquisire così il diritto di tornare in Paradiso.
Nella prima parte vaga per l’India, raccogliendo il sangue versato per una giusta causa da un eroe morto sfidando un tiranno; nella seconda parte è in Egitto dove la peste decima la popolazione ed assiste al sacrificio di una donna che decide di morire accanto al suo uomo ormai in fin di vita. Il sangue del primo e le lacrime della seconda non sono però doni sufficienti perché le porte dell’Eden si possano schiudere.
La Peri è sempre più disperata. Nella terza parte troverà tra “i mille minareti della Siria” il dono decisivo: durante l’islamica ora della preghiera un uomo colpevole di ogni più turpe nefandezza, si ferma di fronte ad un fanciullo, simbolo di purezza e prova orrore per le sue colpe, pentendosi. Quelle sante lacrime d’intimo pentimento apriranno finalmente le porte del paradiso alla Peri.
La redenzione, com’è noto, è tema abbastanza ricorrente nel romanticismo tedesco. Lo stesso Wagner, venuto a conoscenza del lavoro di Schumann, così gli scrive: “Confesso di essere contento del titolo della vostra composizione; non solo conosco quel meraviglioso poema, ma anzi avevo anche pensato di metterlo in musica; solo che non riuscivo a trovare una forma che potesse giustificare ciò e mi congratulo con voi che avete trovato quella giusta”.
Peraltro, Schumann compone un lavoro che anticipa non solo alcune tematiche, ma anche molte delle future innovazioni stilistiche proprie di Richard Wagner.
Egli abbandona il rispetto della tradizione dell’Oratorio protestante, evitando i cosiddetti recitativi secchi ed i solenni fugati, per immergere la materia narrativa in un’atmosfera musicale tutta romantica.
Lo stesso compositore parla giustamente di “nuova forma”; e quando dopo un’esecuzione a Berlino gli viene rimproverata proprio la mancanza dei recitativi e delle fermate tra un brano e l’altro, risponde: “Entrambe le cose mi sembrano un reale vantaggio, oltre che un passo avanti nello sviluppo della forma.”
L’abbandono delle forme chiuse avverrà in modo quasi definitivo nel teatro wagneriano con L’Oro del Reno (1854).
Un altro aspetto che colpisce è poi la singolare, scarna concisione dei brani che compongono il lavoro; brani che sono, a loro volta, concatenati in una sorta di collana di preziose miniature.
In fondo, Schumann trasporta la sua tecnica pianistica all’interno di una struttura ove si era abituati a lunghe arie, ben distinte e separate da recitativi altrettanto corposi.
Originale è pure l’uso di un leitmotiv esposto all’inizio della composizione e che ricorre in più parti fondamentali, ogni volta radicalmente variato; una tecnica già utilmente sperimentata con decisione nelle opere mature di Carl Maria Von Weber (si pensi, per esempio, al suo capolavoro: Il Franco Cacciatore).
Le uniche parti che appaiono scolastiche e prevedibili sono gli interventi corali: piuttosto accademici rispetto all’essenziale rifinitura delle parti solistiche.
Si tratta, in ogni caso, di difetti marginali nel quadro complessivo di un’opera sostanzialmente riuscita e di cui il suo autore andava fiero. “ Ho finito il mio Das Paradies und die Peri venerdì. - scrive Schumann a Clara – E’ il mio lavoro più grande e, spero, il migliore. Ringrazio il cielo che mi ha dato le forze di arrivare alla fine di tale partitura. Una composizione di questo genere significa un’enorme quantità di lavoro e rende consapevoli di cosa significhi comporre questo tipo di opere, come Mozart, per esempio, che compose otto opere in pochissimo tempo! Tu potresti dire che la storia della Peri è stata scritta per essere messa in musica. L’intera idea è così poetica che mi ha ispirato completamente.”
La prima esecuzione dell’Oratorio di Schumann avviene nel dicembre del ’43 al Gewandhaus, sotto la direzione dell’autore (questo è anche il suo esordio in qualità di direttore) ed ottiene un notevole successo, forse il maggiore tributatogli in tutta la sua carriera.
La semplicità melodica e l’immediatezza del lavoro, di certo, contribuirono non poco all’esito positivo di quel concerto; la scarsa familiarità con quel tipo di scrittura, unitamente al desiderio di creare un’opera comprensibile e immediata (poiché tali erano le specifiche qualità del genere oratoriale) costituirono indubbiamente la chiave di volta di quella affermazione.
La musica di questo Oratorio nella sua comprensibile ma anche raffinata scrittura raggiunse l’obiettivo di piacere, sia al pubblico che alla critica del tempo.
D’altro canto, stupisce come il Novecento abbia (e molto) trascurato l’intrinseco valore di questa composizione.
Sin dalla prima aria di Peri, dopo l’introduzione orchestrale con il bellissimo leitmotiv dell’angelo caduto, l’atmosfera appare subito visibilmente nostalgica. La struttura è quella del lied strofico, più volte utilizzata in questo lavoro, poiché assicura una facile ed immediata comprensione musicale; perfettamente in linea con la succitata intenzione dell’autore di comporre qualcosa di popolare.
Al centro del brano Schumann cita un frammento mozartiano dell’aria “Non so più cosa son cosa faccio” di Cherubino (tratta da Le Nozze di Figaro); Peri come lo spaurito paggio delle Nozze, vive uno stato di dolorosa separazione.
Nelle pagine seguenti ancora risuoneranno raffinate reminiscenze dei capolavori teatrali del compositore salisburghese, quasi ad indicarci una sorta di spirituale parentela con quell’universo musicale colmo d’intensa malinconia.
Nel corso dell’oratorio schumanniano spiccano, inoltre, riferimenti molteplici a Bach, Mozart e Mendelssohn, ma anche sorprendenti anticipazioni di effetti wagneriani (come nell’ardito fluttuare delle acque del Nilo, ricreato attraverso il perpetuum mobile dei violini).
Il Paradiso e la Peri è composizione unitaria, nonostante i numerosi prestiti classici ed alcuni rimandi persino allo stile rinascimentale.
Il compositore tedesco riesce nell’impresa di ricreare finalmente un’opera di vaste proporzioni, senza disperdersi nella pericolosa approssimazione di riferimenti, talora anche disparati, ad epoche diverse.
D’altronde, il Romanticismo è anche epoca di rivalutazione e conservazione dei patrimoni artistici; l’umanità inizia a “guardarsi indietro” e Schumann e Mendelssohn sono tra i pionieri più entusiasti di questa nuova visione del mondo. L’inquieto anelito schumanniano verso la trascendenza trova in questo suo straordinario oratorio la sintesi ideale.
Nel 1851, nella cattolica Düsseldorf, il musicista compone il suo secondo oratorio profano, Der Rose Pilgerfahrt op. 112 (Il Pellegrinaggio della Rosa) per soli, coro ed orchestra.
Il libretto è di un giovane poeta, Moritz Horn e racconta una storia che potrebbe essere considerata il rovesciamento di quella dell’angelo Peri.
La Rosa è un essere che appartiene al mondo fiabesco degli spiriti; essa chiede alla regina degli elfi di poter assumere sembianze umane per poter provare le gioie dell’amore. Quest’ultima acconsente al suo desiderio, non prima di averla avvisata che nel mondo degli uomini c’è anche molto dolore e di averle donato una rosa magica che le assicura la felicità. Inizia così il pellegrinaggio terreno della Rosa.
Scacciata da una vecchia alla quale ha chiesto ospitalità, la Rosa fa amicizia in un cimitero con un umile “scavafosse”; egli la affiderà ad una coppia, che ha appena perso l’unica figliola. Presso di loro cresce ed incontra il futuro marito. Il suo cammino nel mondo si compie nel dare alla luce un bambino al quale lascia la rosa magica, morendo subito dopo. Un coro di angeli le dà il benvenuto in cielo.
L’oratorio venne originariamente composto con il solo accompagnamento pianistico; in questa versione fu eseguito con particolare successo nel 1851. In seguito, Schumann si lasciò convincere ad orchestrare la parte pianistica, in modo da rendere il lavoro più adatto ad un grande pubblico. Così egli scriveva a tale proposito: “Ho composto l’opera con l’accompagnamento del pianoforte solo, perchè mi sembrava perfetto. Sono stato invitato dagli amici ad orchestrare il tutto. Così l’opera potrà indirizzarsi ad un più largo numero di ascoltatori. E’ un lavoro odioso, poiché esso non è solo noioso, ma anche privo d’interesse; una volta che una cosa è finita non m’interessa più. E’ come un capitolo chiuso, con cui non voglio più avere nulla a che fare. Anche perché mi sento trascinato verso altre mete.”
Si tratta di una testimonianza interessante sotto diversi punti di vista. Innanzitutto, ci conferma che Der Rose Pilgerfahrt è stato concepito senza orchestra e ci aiuta a comprendere perchè quest’ultima, pur avvolgendo in una timbrica gentile e delicata le voci, non sembra aggiungere nulla di essenziale al discorso musicale.
Inoltre, queste parole ci ripropongono il profilo di uno Schumann sempre fedele, anche in quest’ultima fase così ricca di “simpatie” neoclassiche, ai principi dell’estetica romantica; mosso esclusivamente da un’ispirazione necessaria, egli si dichiara pronto ad abbandonare una composizione al suo destino non appena quell’impellente spinta creativa viene ad esaurirsi.
Insomma, si manifesta ancora una volta in lui il rifiuto per il mediocre, gratuito artigianato dei mestieranti: laddove manca una necessità interiore, meglio tacere.
La nuova versione dell’opera è ultimata durante l’anno successivo e riscuote un buon successo sia a Düsseldorf, che a Lipsia. Poi anche Der Rose Pilgerfahrt scompare dalle scene e va ad incrementare il numero delle opere colpevolmente dimenticate.
La concezione di questo oratorio è abbastanza simile a quella del precedente: brevi pezzi che confluiscono l’uno nell’altro a garantire l’unitarietà del discorso musicale; un flessibile declamato che sa divenire prontamente aria, lied, duetto o dialogo con il coro; ricchezza di idee musicali, tendenza alla semplificazione ed al rifiuto di una scrittura accademico-contrappuntistica. Molti però sono anche gli aspetti che differenziano i due oratori: mentre il Paradiso e la Peri era opera grandiosa, arricchita da reminiscenze del passato - da Palestrina a Bach sino a Mozart - quest’ultima è invece una composizione più intima e raccolta, più limitata nelle ambizioni ed anche nella durata (solamente due atti), più asciutta ed essenziale.
Altrettanto romantica e personale, essa sembra però manifestare più la poesia sommessa di Eusebio che non la tendenza verso la solenne magniloquenza propria del Maestro Raro.
L’opera non è comunque stilisticamente unitaria, essendo divisa da due atteggiamenti antitetici: quello meditativo, con alcune sfumature addirittura esoteriche, e quello popolaresco e rustico.
Dunque, il mondo degli spiriti ed il mondo profano (terreno) si contrappongono; l’uno etereo e celestiale, l’altro animato dai sentimenti più diversi. Eppure s’inizia e si termina nell’assoluto, poiché ogni cosa sembra da lì provenire e poi ritornare; Rosa è il simbolo stesso dell’avventura umana, di quel pellegrinaggio terrestre che si deve compiere. Significative sono le sue ultime parole: “Questa non è una pallida / nera Morte, / questa Morte è come un’aurora”, cui segue il conclusivo, diafano coro degli angeli dove l’individualità sembra gioiosamente dissolversi.
Non possiamo poi dimenticare come Schumann fosse studioso entusiasta di scienze occulte, oltre che protagonista in prima persona di vere e proprie sedute spiritiche, durante le quali gli angeli, a suo dire, gli dettavano musica celeste.
Dietro alla creazione del Pellegrinaggio della Rosa non si fa fatica ad intuire un mondo di entità disincarnate e il loro perpetuo tentativo di migliorarsi attraverso l’esperienza dell’amore compiuta sulla terra.
“ La progressione di Rosa – scrive Schumann – da ragazza ad angelo mi sembra poetica ed inoltre indica la dottrina della superiore trasformazione dell’essere che affermiamo così volentieri”.
Non pare del resto casuale che il lavoro si apra con un inno alla primavera, palese metafora di una ciclica renovatio che guida i destini umani. Alla nascita di Rosa sulla terra fa riscontro una morte: in un cimitero illuminato dalla luce lunare un uomo scava la fossa per una giovane ragazza defunta.
Nel silenzio della notte Rosa, l’uomo ed il coro intonano un breve, commosso requiem. Segue uno splendido coro di elfi che chiude la prima parte.
Il secondo atto è invece la celebrazione delle felicità terrestri; il registro musicale cambia ed insegue una semplicità popolaresca (come testimoniano i cori maschili dei cacciatori e l’intera scena dei festeggiamenti nuziali) talmente eccessiva da risultare nuova per la poetica schumanniana, in genere abbastanza distaccata e certo lontana dal linguaggio del vulgus.
La storia di Johannes Faust, studente squattrinato esperto in arti magiche si conclude nel 1540. Figura oscura e controversa diviene subito oggetto di rielaborazioni letterarie e teatrali come The Tragical History of Dr. Faust di Christopher Marlowe (1592) e il Doctor Faust di Lessing, pubblicato quasi due secoli dopo (1759).
La leggenda di Faust trova la sua consacrazione nel capolavoro goethiano. Il poeta di Weimar vi lavora per tutta la vita, cominciando ad occuparsene nel 1773 e arrivando ad una stesura definitiva nel 1808. Per la seconda ed ultima parte bisognerà attendere addirittura il 1831. Compiuta l’immensa opera, Goethe morirà l’anno dopo.
Sono numerosi i musicisti che si sono dedicati al mito letterario di Faust.
Il titano che sfida il fato per soddisfare la propria sete di conoscenza affascinerà più d’ogni altro mito i compositori romantici, che musicheranno il fondamentale poema dandogli le forme più disparate: da Schubert a Wagner, da Berlioz a Liszt, da Gounod a Boito, da Mahler a Busoni.
Se in molti si sono interessati, a vario titolo, del Faust di Goethe, per Schumann si è invece trattato dell’opera che lo ha sempre accompagnato durante l’ultimo decennio della sua febbrile attività creativa (1844-1853).
Le Szenes aus Goethes Faust per soli, coro e orchestra, che possiamo considerare il suo terzo oratorio profano vengono composte in epoche diverse; divise in tre parti, precedute da un’ouverture, mostrano una gestazione certamente singolare.
Infatti, nel 1844 il compositore inizia mettendo in musica il coro mistico che chiude il poema. Segue poi un temporaneo abbandono, probabilmente dovuto al fatto che Schumann non si sentiva più all’altezza del compito. L’anno seguente, infatti, egli scrive: “La scena del Faust riposa nel mio studio; ho troppa paura di riprenderla. La sublime poesia di quella conclusione mi ha riempito di una tale emozione, che mi ha donato l’audacia di tentare questo lavoro; non so se riuscirò a pubblicarlo mai.”
Nel 1847 egli amplia la composizione lavorando a tutto il lungo quadro conclusivo, “Gole montane”, che andrà a costituire la terza parte dell’oratorio. Per ora essa possiede vita autonoma, intitolandosi Fausts Verklärung (la redenzione di Faust) e viene eseguita con successo a Dresda, Lipsia e Weimar (in quest’ultima città sotto la direzione di Franz Liszt).
Nel 1849 Schumann componeva l’atto iniziale dedicato a Margherita, tre scene (Giardino, Bastione e Duomo) tratte dalla prima parte del poema; l’anno successivo scrive l’atto centrale dedicato a Faust, ancora tre scene tratte però dalla seconda parte dell’opera letteraria (Ridente contrada, Mezzanotte e Grande cortile antistante al palazzo). Per ultima nel 1853 nasce l’ouverture.
La scelta dei passi effettuata da Schumann all’interno del colossale lavoro di Goethe è sorprendente e significativa. Laddove la maggior parte dei compositori romantici preferiva occuparsi della prima parte del Faust (quella certamente più celebre e ricca di effetti), il musicista sassone si dedica invece solo alla seconda, senza dubbio più ermetica e di ardua comprensione. Qui la figura di Mefistofele è quasi assente. Il compositore è invece attratto dal contenuto mistico che pervade la seconda parte e soprattutto da quell’ampio finale che aveva eccitato subito la sua fantasia.
Né ci può apparire strana una simile scelta, almeno alla luce di quanto detto in riferimento ai due precedenti oratori; come in quelli ritroviamo l’anelito alla trascendenza ed all’unione con una totalità che ha caratteri solo vagamente cristiani ed in cui (nel poema, prima ancora che nella composizione musicale) Dio ci sembra abbastanza lontano.
L’anima di Faust è accolta da cori angelici, anime penitenti e fanciulli beati, elevandosi in quell’universo luminoso. I suggestivi versi del conclusivo coro mistico non potevano lasciare indifferente il compositore: “Tutto ciò che passa / non è che un simbolo; / l’imperfetto / qui si completa; / l’ineffabile / è qui in realtà / l’eterno femminino / ci attira in alto accanto a sé ”.
L’esistenza concepita come pellegrinaggio finalizzato all’evoluzione spirituale, come dolorosa incompiutezza e desiderio di superamento, stabilisce una sottile sintonia tra la visione di Goethe ed il sentimento di Schumann.
L’ouverture, scritta in forma-sonata, è estremamente solenne e grave; in essa assistiamo ad un beethoveniano contrapporsi di un primo tema energico, ritmicamente vigoroso ed intonato dall’intera orchestra e ad un secondo tema dolce ed insinuante, eseguito dai soli primi violini; tema che risentiremo nel canto di Margherita, come nei motivi che accompagnano l’entrata di Mefistofele e dello spirito maligno. Se il primo tema sembra alludere alla personalità titanica di Faust, il secondo è invece legato alla tentazione diabolica ed al cedimento morale.
La prima scena, che ritrae l’amoroso dialogo tra Faust e Margherita, è calata in un’atmosfera musicale lieve: un breve dialogo giunge al suo culmine lirico, allorchè la ragazza s’interroga scherzosamente sull’amore di Faust, ricevendone appassionata risposta positiva.
La gioia si trasforma in angoscia nel monologo seguente, durante il quale Margherita si rivolge alla Mater dolorosa confessandole il proprio rimorso: è una lunga, triste declamazione contenuta in brevi intervalli; una melodia dal sapore decisamente wagneriano, che s’impenna all’implorazione: “Aiutami, salvami dalla vergogna e dalla morte!”.
Lo schema ritmico che scandiva l’arioso melodizzare degli archi nella prima scena, ora si ripete in un gesto musicale irrigidito che risuona insistente nelle viole, esprimendo lo stato d’animo sconvolto del personaggio.
La terza scena è poi il capolavoro di questa prima parte. Nel duomo Margherita prega mentre un coro intona il Dies Irae ed uno spirito maligno le insinua pensieri di colpevolezza. L'insieme di tre componenti così diverse l'una dall'altra dona alla pagina una grandiosità tragica, che ricorda a tratti quella del Don Giovanni mozartiano. Il rimando al compositore salisburghese è tanto più giustificato, poiché sono palesi le reminiscenze che legano questo Dies Irae a quello del celebre Requiem K.626; Schumann, infatti, utilizza la medesima tonalità (re minore), riprendendo la stessa intonazione apocalittica, ma parafrasandone i ritmi.
La disperata solitudine di Margherita risulta amplificata nel suo stagliarsi sullo sfondo di quel coro minaccioso e compatto che annuncia prossimo il giudizio universale, mentre il rimorso, personificato dal perfido spirito, la perseguita. Raramente la difficoltà dell’esistenza sospesa tra cielo e terra, beatitudine e peccato, ha trovato formulazioni artisticamente più intense.
La sezione centrale, divisa anch’essa in tre quadri, è interamente dedicata a Faust. Schumann non si è ispirato al Faust diabolico della prima parte, ma a quello già sulla via della salvezza, pentito e consapevole dei propri limiti umani, della seconda parte della tragedia. Si inizia con “Ridente contrada” la scena che inaugura anche il poema postumo goethiano. Ariele ed un coro di piccoli elfi svegliano l’eroe dal suo profondo sonno, invitandolo a contemplare la bellezza della natura; in essa egli deve saper cogliere la grandezza divina ed i limiti della mente umana alla quale è dato intuire Dio, solo nelle opere terrene e senza oltrepassare tale soglia.
Faust canta allora uno stupendo monologo, “ In alto lo sguardo!”, attraverso il quale si avvia a ritrovare la propria dimensione umana. Schumann si dimostra molto sensibile a questa concezione di una natura redentrice, la cui bellezza è simbolo divino dell’infinito; solo attraverso di essa l’uomo può davvero immaginare la grandezza e la potenza di Dio.
La realizzazione musicale è fedele alle indicazioni di Goethe; Ariele canta “con accompagnamento di arpa” ed il successivo coro degli elfi intona la sua dolce melodia “a due voci e più, alternate o tutte insieme”. E’ una sezione intensamente cantabile, a partire proprio dal tema introduttivo degli archi, che emana una pace profonda, punteggiato com’è da vivaci e saltellanti armonie dei legni.
Dopo il giubilante coro torna Ariele e proclama la nascita del nuovo giorno; esso risuona fragoroso “simile a trombe e a tube”; in questa maestosa pagina, di particolare effetto, si proclama metaforicamente il risveglio di un nuovo Faust.
Quest’ultimo ora canta la sua lode alla natura in un’aria dal tono virile. E’ tornato ad essere un uomo semplice e vero.
La seconda scena (“Mezzanotte”) ci porta di colpo alle ultime pagine del poema; Faust è visitato da uno spirito malvagio, la Cura. La colorita orchestrazione la dipinge in modo sinistro e cupo, accompagnata da sonorità aspre dei legni, su cui si stagliano inquiete figurazioni di viole e violini, simili al secondo tema dell’ouverture.
Faust intuisce il pericolo ed in un’accorata declamazione confessa la propria colpa:
“Potessi allontanare la magia dal cammino / dimenticare del tutto le formule magiche! / potessi, o Natura, starti innanzi come uomo e null’altro, / allora varrebbe la pena di essere uomo!”.
Si tratta di un passo indubbiamente ricco di implicazioni umane e filosofiche nel cammino verso la redenzione del protagonista e che si ricollega al primo quadro del poema postumo, come ha ben compreso Schumann accostandoli entrambi.
La Cura acceca Faust che le si oppone alla fine di un serrato duetto, ove agli enigmatici motivetti della prima fa eco il canto disteso e lirico del secondo. E proprio mentre ciò accade, l’interiorità di Faust si illumina: “Sembra che la notte scenda dentro sempre più profonda, / ma in me brilla chiara la luce”; l’intera orchestra commenta, entusiasta, il suo prendere coscienza.
La terza scena (Grande cortile antistante il palazzo) ci descrive la morte di Faust mentre nel dramma di Goethe segue direttamente Mezzanotte. Mefistofele ordina ai Lemuri di scavare una tomba; Faust sente i colpi delle vanghe e pensa stiano approntando una diga per bonificare una palude, come ha ordinato. Proprio quando pensa di aver realizzato la sua visione (quella cioè di una terra paradisiaca al riparo dal male e governata da un’operosa cooperazione di uomini liberi), nel presentire la felicità suprema che ciò gli procura, cade improvvisamente al suolo, morto.
Si tratta di un quadro di notevole intensità musicale, anch’esso con un riconoscibile taglio wagneriano; dopo l’appassionata perorazione faustiana della sua illusione, un tremendo, espressionistico fragore degli ottoni commenta la sua fine. L'epilogo è una silenziosa ed oscura marcia funebre.
La terza parte mette in musica la grandiosa scena conclusiva, Gole montane; in un metafisico paesaggio roccioso si dispongono su vari gradi le gerarchie spirituali: santi anacoreti, fanciulli beati, angeli novizi, angeli più perfetti ed infine, all’apice, la Vergine stessa, immersa nella luce. In questo suggestivo scenario ultraterreno, ispirato a Goethe dal poema dantesco (nonchè dagli affreschi del Camposanto di Pisa e dalle pale dedicate all’Assunzione della Madonna da Tiziano e Murillo) viene accolto lo spirito di Faust e la stessa Margherita, alla testa di un coro di penitenti, intercede per lui. Tutto si dissolve nel radioso coro mistico conclusivo.
Questa scena affascinerà non poco Gustav Mahler, che la utilizzerà nella seconda parte della sua ciclopica Ottava Sinfonia.
La considerazione che viene subito da fare, a proposito delle scene dal Faust, è il cambiamento continuo del linguaggio e dello stile adottati da Schumann nel corso del lungo ed intenso lavoro sull’opera.
Tra il 1844 ed il 1849 lo stile del compositore sassone si modifica profondamente, passando da un incedere moderno (dove il libero melodizzare preconizza già i capolavori wagneriani) ad un precipitoso ritorno alle forme chiuse, dove si riaffaccia la netta differenziazione tra recitativo ed aria e il ritorno di solenni cori ricondotti ad una solida scrittura imitativa, senza dubbio più comprensibile.
Il Requiem für Mignon op.98b per soli, coro e orchestra viene composto unitamente al ciclo dei lieder ispirati a Gli anni di noviziato di Wilhelm Meister di Goethe; entrambi i lavori sono del 1849. Schumann è affascinato dalla dolce figura di Mignon, l’enigmatica fanciulla che con l’inseparabile arpista accompagna i vagabondaggi di Wilhelm, dedicandole questa commossa cantata funebre; il musicista attinge direttamente dal testo del celebre scrittore un breve passo sul quale si svolge la composizione.
Quattro giovani (due soprani e due contralti ossia le voci soliste) accompagnano la salma della loro amica tra i trapassati (il coro); dopo l’iniziale ritmo di marcia che apre il lavoro, Schumann abbandona ogni esteriore pittura musicale per trasformare questo addio alla vita in un’animata riflessione.
Il tono inquieto e malinconico dei solisti che piangono la compagna si scontra con gli accenti sereni del coro; i primi privilegiano il modo minore, le linee melodiche ripiegate e cromatiche, la declamazione intensa ed interrogativa, mentre il secondo risponde nel modo maggiore, con motivi ampi e diatonici, decisi nel ritmo e nell’espressione.
Il dialogo, con la sua intima contrapposizione, si fa sempre più serrato mentre in orchestra risuona, con effetto straziante, l’arpa, ricordo ancora terreno; soli e coro sono chiamati ad impersonare due antitetiche visioni, l’una terrestre, lacerata dal dolore, avvolta nel ricordo delle umane vicende, l’altra trascendente ed un poco fredda nella sua metafisica lontananza.
Le poetiche, indefinite voci (lontane) dei cicli pianistici, che sembravano alludere ad un infinito luminoso in cui perdersi, hanno lasciato il posto a questo coro ieratico dalla solennità scontata, ma pur sempre coerente con la tradizione musicale sacra, dove si esprime la più autentica dimensione ultraterrena.
E’ anche evidente che le simpatie schumanniane vanno ai ragazzi ed al loro smarrimento.
Una voce richiama alla vita terrena i giovani, mentre in orchestra risuona un caldo dialogo tra oboe e fagotto; felici, quasi a ritmo di marcia come nel finale del Carnaval, essi accolgono l’invito in una festosa conclusione.
Opera incantevole ed intensa il Requiem per Mignon ci rivela uno Schumann diviso tra terra e cielo, finito ed infinito, più legato alle piccole gioie umane e meno proteso verso l’assoluto; insomma, uno Schumann questa volta più vicino al razionale classicismo di Goethe che alla notturna poesia dei romantici.
Nel 1852, a Dusseldorf, Schumann compone un altro Requiem (quello opera 148), questa volta sul classico testo cattolico in latino.
L’opera non è indubbiamente tra le più riuscite. Il lavoro suddiviso in nove brevi parti, si mostra in bilico tra la semplicità espressiva del liederismo e l’aspirazione ad una compiuta scrittura polifonica, senza riuscire ad imboccare con decisione nessuna delle due possibili strade; esso alterna momenti d’implorazione ad altri di solenne grandiosità, senza raggiungere esiti di particolare interesse.
Si potrebbe perciò dire che un nobile, ma ovvio manierismo, imprigioni completamente l’opera, impedendole di decollare.
Nelle sue nove brevi parti - ciascuna ulteriormente suddivisa in sezioni distinte - la composizione si rivela, ancora una volta, un insieme di motivi, nei quali si annulla quella forma polifonico-corale di ampio respiro, senza però che la composizione si risolva in qualcosa di realmente nuovo ed originale.
Lo Schumann neoclassico non pare possedere, in definitiva, la capacità di sostenere le sue ambizioni; non è un costruttore di grandi cattedrali sonore, secondo l’imperante moda ottocentesca.
Al contrario, il valore dei suoi lavori corali continua a poggiare essenzialmente su una semplificata concezione d’intensa espressività. In questa continuità, pur caratterizzata da sensibili differenze stilistiche, c’è però tutta l’intima coerenza spirituale dell’opera schumanniana, che invita a considerare con sereno equilibrio la vita e la morte quali semplici momenti di un più ampio percorso.

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